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Via Poma: le motivazioni della condanna di Raniero Busco

Roma, 26/4/2011 - “E' certo che la ragazza ebbe ad aprire ad una persona che conosceva e con la quale si stava accingendo ad avere un rapporto sessuale pienamente consenziente tanto che si era regolarmente spogliata. Questa persona non poteva che essere Raniero Busco dal momento che non si era rinvenuta traccia di altre possibili storie con altri uomini”. E' quanto affermano i giudici della III Corte d'Assise di Roma nelle motivazioni, depositate oggi, della sentenza con  la quale hanno condannato a 24 anni di reclusione l'ex fidanzato di Simonetta Cesaroni, con l'accusa di omicidio volontario per il caso di via Poma. Nel documento di 139 pagine si spiegano le ragioni per cui è stata decisa una pena a 24 anni di carcere per l'imputato. Per i giudici “qualcosa non ha funzionato: forse di fronte a un tardivo e inaspettato rifiuto di lei, l'aggressore, già in preda all'eccitamento sessuale, ha avuto una reazione violenta dapprima stordendola con un vigoroso ceffone  e poi affondando più volte il tagliacarte nel suo corpo ormai disteso a terra e senza che la ragazza potesse opporre alcuna resistenza". Secondo i giudici della III Corte d'assise è stata “raggiunta la piena prova della responsabilità di Raniero Busco”. Una “piena responsabilità” a cui i giudici arrivano elencando una serie di elementi: “Presenza del dna di Busco sul corpetto e sul reggiseno, in misura maggiore in corrispondenza del capezzolo sinistro della vittima - si legge nelle 139 pagine della sentenza - assenza di dna di altre persone tranne che della vittima; contestualità tra il morso al capezzolo sinistro e l'azione omicidiaria; appartenenza al Busco dell'impronta del morso”. A giudizio della Corte non c’è nessun dubbio sul fatto che le tracce biologiche rinvenute sugli indumenti della ragazza siano state lasciate al momento del delitto, “del resto, quand'anche per assurdo si volesse ipotizzare che a mordere il seno di Simonetta, e dunque ad ucciderla, fosse stata un'altra persona, questa avrebbe dovuto necessariamente rilasciare il proprio dna sul reggiseno e sul corpetto della ragazza, ciò che non è avvenuto in quanto sugli indumenti sono stati ritrovati soltanto ed esclusivamente materiali biologici appartenenti in grande quantità alla vittima e in parte ridottissima al Busco. È certo infatti - scrivono i giudici - che stanti le modalità dell'omicidio l'assassino non avrebbe potuto non rilasciare il suo Dna sugli indumenti della vittima”. Il morso sul seno della Cesaroni è “un elemento probatorio di assoluta rilevanza” e la sua “contemporaneità con l'aggressione della giovane trova oggettivo e indubbio riscontro in quella sorta di graffio arrecato con il tagliacarte che l'assassino ha per 29 volte affondato sul corpo della ragazza e che presenta una crosticina sieroematica dalle stesse caratteristiche di quella rilevata sul capezzolo sinistro”. Per quanto concerne l'ora del delitto, sulla scorta degli elementi raccolti dalle indagini, “può fondatamente ritenersi che l'orario della morte vada a collocarsi dopo le 17.15-17.30 e prima delle 18-18.30”. Per i magistrati Raniero Busco tra le “16 e le 19,45” del 7 agosto del 1990 “deve ritenersi privo di alibi”. I giudici fanno riferimento anche a Pietrino Vanacore, ex portiere dello stabile di via Poma morto suicida nel marzo del 2010: è “plausibile” con una “coerenza interna” la ricostruzione fatta dalla Procura in merito al ruolo che avrebbe avuto Vanacore nelle ore successive al delitto. Una ricostruzione che, secondo quanto si legge nelle motivazioni, “non puo' ritenersi pienamente provata” in quanto “sfornita di prova certa”. Secondo quanto sostenuto dal pm Ilaria Calò nel corso del processo, l'ex portiere avrebbe trovato la porta degli uffici dell'Aiag socchiusa (perché lasciata così dall'assassino), entrato avrebbe trovato il cadavere di Simonetta e “invece di chiamare la polizia, aveva cercato di contattare telefonicamente i possibili personaggi di rilievo interessati alla vicenda lasciando l'agendina rossa Lavazza sulla scrivania di lavoro della ragazza, quindi era uscito chiudendo la porta a chiave utilizzando le chiavi con il nastrino giallo che si trovavano appese allo stipite della porta di ingresso degli uffici” dell'associazione italiana alberghi della gioventù.